Per la rubrica “Donne d’acciaio”, oggi facciamo gli auguri ad una delle più grandi personalità della storia dell’aviazione.
Nata nel 1897 in Kansas da una famiglia benestante, Amelia Earhart probabilmente non avrebbe mai immaginato da bambina che sarebbe entrata nella storia come una delle più grandi aviatrici di tutti i tempi. Da giovane frequentò i corsi per diventare infermiera, infatti durante il primo conflitto mondiale prese servizio presso l’ospedale militare di Spadina, in Canada, per curare i feriti di ritorno dai campi europei. E durante questi mesi di servizio, a sentire i racconti dei soldati e degli aviatori, in qualche remoto angolo della sua testa probabilmente scattò qualcosa. Una cosa del tipo “voglio volare” o probabilmente meno banale. Magari si immaginava con delle ali a solcare i cieli ed accarezzare le nuvole. O magar si vedeva con una divisa da aviatore a difendere la sua nazione. Magari senza fare la fine di Icaro. Perchè diciamolo, abbiamo tutti passato quel momento della nostra vita in cui vogliamo fare gli astronauti o i piloti. Personalmente quella fase non è ancora passata e probabilmente non passerà mai, tuttavia mi scontro con l’ineluttabile necessità di avere un bonifico sul conto a fine mese per non morire di fame.
Vabbè ad ogni modo, Amelia non era proprio una che lasciava perdere, anzi, tornata in patria decise di prendere lezioni di volo dopo aver provato la gioia di staccarsi dal suolo per la prima volta durante un’esibizione aerea.
Dobbiamo tenere presente che erano i primi anni ’20 del 1900. Gli aerei non erano quelli di adesso. Erano sostanzialmente degli scheletri di metallo, legno, a volte tela con qualche rudimentale strumento di misurazione ed uno o più motori a sfidare la forza di gravità. Volare a quel tempo era più o meno pericoloso come provare ad irritare un laureando il giorno prima della discussione della tesi, o andare ad un concerto dei Modena City Ramblers con una maglietta di Salvini.
“Meglio porco che fascista” – Porco rosso
Amelia prese le sue lezioni ed imparò a volare su un Curtis JN4 restaurato ed adatto all’addestramento. Un velivolo semplice ma in fondo anche adatto all’esigenza. Accumulando ore e dimestichezza nel volare, probabilmente nella sua mente scattò qualcosa di ancora più audace, soprattutto alla luce delle gesta che venivano compiute coraggiosamente a quei tempi. Parlo della traversata transoceanica in solitaria di Charles Lindbergh, passata alla storia, giustamente, come impresa eroica.
“Perchè non posso farlo anche io?”
Probabilmente avrà pensato questo, quando decise di organizzare la traversata dell’oceano, a bordo di un Lockheed Vega. Riuscì a compiere l’impresa il 21 maggio del 1932, partendo da Terranova ed atterrando in Irlanda del Nord.
Inutile dire, che non si fermò qui, perchè subito dopo attraversò gli Stati Uniti in solitaria ed iniziò a progettare l’impresa delle imprese, il giro del mondo in volo.
La Lockheed costruì il velivolo apposta per lei, seguendo le specifiche richieste (ad esempio montando dei serbatoi aggiuntivi su misura per il carburante. Devo dire che per l’epoca, il Lockheed Electra 10E era anche un bel ferro, esteticamente gradevole ed avanzato.
Sembra quasi uscito dalle fabbriche di Naboo. Padme? Dove sei?
La missione però iniziò con qualche intoppo. Partendo dalla California, ed arrivando alle Hawaai, sorsero problemi al motore (Amelia infatti volle fortemente delle eliche a passo variabile. No non è che camminano più o meno veloci. Semplicemente inclinano più o meno le pale in base alla necessità di fendere più o meno l’aria). Fu necessaria una sosta tecnica per le riparazioni.
Di seguito, esplose una gomma del carrello, rendendo necessario il trasferimento dell’aereo alla Lockheed via mare, per le riparazioni.
Ma di certo non era una che si faceva abbattere e quindi il 1° giugno del 1937 partì di nuovo dalla California, stavolta verso la Florida, a causa delle condizioni meteo avverse sul pacifico.
Da Miami, ripartì, insieme a Noonan, il suo copilota, diretta verso l’Africa. Un paio di soste anche tra India e sud-est asiatico, ed ecco che raggiunse Lae, in Nuova Guinea.
Che fatica eh quando non c’era Ryanair?
Dopo 35000 km fatti, tre continenti attraversati, un paio di oceani sorvolati, ormai mancavano 11000 km per la valigia di Vitton con la carta millemiglia per completare l’impresa.
Ripartì da Lae, diretta verso l’isola Howland, nel Pacifico, dove una nave della guardia costiera americana era incaricata di farle da radiofaro ed indicarle la via.
Ma la storia, lo sappiamo, a volte esige un tributo. Qualcosa andò evidentemente storto perchè Amelia, ad Howland non arrivò mai. Probabilmente un errore di rotta causò un allontanamento del velivolo dall’isola, rendendo ormai il poco carburante rimasto nei serbatoi insufficiente a completare il viaggio. Inutili furono anche le operazioni di soccorso, immediatamente attivate per cercare i naufraghi o quantomeno i resti per chiarire la dinamica degli eventi.
Gli idrovolanti cercarono per giorni qualche segno dell’incidente, coprendo 390000 km quadrati di superficie, ma solo nel 1940, sull’isola di Nikumaroro, vennero trovati resti (ossa ed oggetti personali) riconducibili ad Amelia. In realtà nel 1941 questa ipotesi venne scartata, ma un’analisi forense del 2018 ha finalmente messo un punto alla tragica fine di un personaggio assolutamente incredibile.
Piccola nota a margine. Amelia Earhart compare spesso in episodi di Star Trek (Voyager, Enterprise e The Next Generation) e nella recente serie “The Orville” di Seth MacFarlane dove Amelia è ancora viva, in quanto trasportata nel futuro.